Scommessa verde

Categoria : Ambiente ed ecologia

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È un enorme filtro per l’atmosfera, è l’ecosistema più ricco del pianeta, è un manto verde di 5 milioni di chilometri quadrati. Ed è, fin dai tempi dei conquistadores, una fonte inesauribile di ricchezze da rubare. La storia della foresta amazzonica sembra continuare come era iniziata. Le immagini satellitari diffuse annualmente dall’Istituto di Ricerca Spaziale del governo brasiliano (“nazionalità” del 70% della foresta), confermano che gli alberi scompaiono a una velocità allarmante.
Tra il 2002 e il 2003 sono spariti 24 mila chilometri quadrati di giungla, superficie pari alla Sardegna. Il disboscamento annuo è ormai costantemente sopra i 20 mila, e tende a salire. A dicembre sono state diffuse le cifre preliminari ufficiose – quelle ufficiali si avranno a marzo – sulla deforestazione tra l’agosto 2003 e quello del 2004. Anche stavolta, l’area coinvolta sarà tra i 23.100 e i 24.400 chilometri quadrati. Presto giungeranno anche i risultati – che si annunciano clamorosi – di una ricerca dell’Istituto Brasiliano dell’Ambiente e dell’Uomo dell’Amazzonia (Imazon). Mostrerebbero come quasi metà della foresta sia invasa dall’uomo e dalle strade, considerate l’elemento di maggior rischio per l’ecosistema. Non basta ancora: “L’hamburger connection alimenta la distruzione dell’Amazzonia” è l’allerta lanciata da un altro studio, diffuso qualche mese fa dal Centre for International Forestry Research (Cifor). Il testo individua gli allevamenti di bovini tra i fattori responsabili della perdita di zone di giungla. La superficie del suolo è sottile e fragile; dopo pochi anni il pascolo diventa sterile, rendendo necessario il passaggio altrove.

“Abbiamo raccolto e analizzato dati per cinque anni”, spiega da Belém, città sull’estuario del Rio, Sven Wunder, economista danese. Il suo team di scienziati ha esteso anche all’Amazzonia la definizione coniata nei primi anni ’80 da Norman Myers, analista ambientale e tra i massimi esperti di biodiversità: hamburger connection. Due parole per indicare, nell’accrescimento rapidissimo delle esportazioni di carne dal Centro America agli Usa, una delle cause della deforestazione. “Ai tempi di Myers, l’espressione hamburger connection non era applicabile al Brasile”, continua Wunder, “ma oggi abbiamo rilevato un legame tra la massiccia crescita della popolazione bovina e la sparizione sempre più accelerata di aree verdi”. In tutto il Brasile, il numero di capi presenta un incremento altissimo, e si stima che il Paese sia il primo esportatore mondiale di carne bovina, con un fatturato triplicato dal 1995. La crescita più ragguardevole – dai 26 milioni di animali del 1990 ai 57 del 2002 – è nell’Amazônia Legal, territorio composto da nove Stati, che abbraccia la più vasta porzione di biodiversità della Terra. Molti capi pascolano nel Mato Grosso, in Parà e in Rondonia, dove le foto satellitari indicano la maggiore emorragia di alberi. Secondo il Cifor, il successo della carne di qui ha varie motivazioni: il diffuso timore della Mucca pazza e della Sars in altri Paesi, la sempre minore incidenza di afta epizootica in Brasile, la svalutazione della moneta locale. Il consumo di bovino è salito anzitutto localmente, con l’espandersi della capacità di acquisto di parte della popolazione (i new consumer descritti, anche in base a questo parametro, da Norman Myers e Jennifer Kent in I nuovi consumatori. Paesi emergenti tra consumo e sostenibilità, Edizioni Ambiente).

Gli investimenti sono remunerativi. I bovini rendono molto bene. L’attribuzione dei terreni è difficilissima da regolamentare, il che apre le porte alle occupazioni abusive. Mentre facile è dribblare le norme che impediscono di deforestare più del 20% delle proprietà. Anche se la carne proveniente dalla ex foresta è oggi consumata soprattutto all’interno, il Cifor prevede un forte ampliamento dell’export (www.cifor.cgiar.org/publications/ pdf_files/media/ Amazon.pdf).

Le logiche che conducono a deforestare sono antiche, numerose e intricate come la giungla stessa. Ma due risaltano sulle altre: per le somme di denaro che vi girano intorno, per la creazione di infrastrutture a esse legate e per il vorace avanzamento, registrato dall’occhio imparziale del satellite. La prima è, appunto, la carne; l’altra è la soia, in gran parte destinata all’alimentazione dei capi degli altri continenti. La coltura brasiliana – spinta dall’enorme sviluppo del mercato mondiale, dai prezzi eccellenti, dai significativi investitori stranieri e da alcuni grandi produttori locali – sta avanzando dalla savana del centro-sud del Mato Grosso, dove si era attestata negli anni ’80, verso l’Amazzonia del nord, ma anche in Pará, Roraima, Rondonia e nell’estremo sud dello Stato di Amazonas. I sojeros sono approdati sul grande fiume, a Santarem, cittadina a metà dei 2.500 km che separano Manaus dalla foce del Rio delle Amazzoni. La realizzazione di una rete di terminal fluviali, per imbarcazioni che da sole spostano l’equivalente di mille camion di soia, ha ridotto i tempi e le spese. Il risultato è il boom, ancora una volta a scapito della foresta e a favore dei colossi dell’agribusiness internazionale. Le contestazioni non mancano. Gli attivisti di Greenpeace, a maggio, hanno scalato il terminal di Santarem per appendervi uno striscione che accusava la Cargill – una delle multinazionali – di portare alla distruzione della giungla. Sette hanno pagato con l’arresto. Tra coloro che cercano di limitare il danno ecologico e, allo stesso tempo, migliorare le condizioni di vita della gente c’è Marina Silva de Souza, infaticabile e combattivo ministro dell’Ambiente. I due obiettivi sono infatti tra le priorità di Lula. A marzo è stato annunciato un grande piano per controllare la deforestazione nell’Amazônia Legal. Partirà un nuovo sistema di allerta satellitare. Sono state istituite ampie oasi protette. Ma non basta: serve anche la responsabilizzazione dei proprietari terrieri.

Una delle alternative al saccheggio della biodiversità mondiale resta il calo del consumo di carne nei Paesi occidentali. Il nostro modello, troppo ricco di proteine animali, è stato anche esportato con successo. Lo prospettava l’Ifpri (International Food Policy Research Institute, www.ifpri.org) già nel 2002, prevedendo un aumento del 40% della domanda di carne nel Sud del mondo per il 2020. Possiamo limitare i danni anche sostenendo le produzioni locali ecologicamente corrette. È uno degli obiettivi di Amigos da Terra – Amazônia Brasileira, presente nel Paese fin dal 1989. “Facciamo lobbying politico, diffusione d’informazioni e un lavoro sul campo, con le comunità locali”, spiega Roberto Smeraldi, che guida l’associazione. Tra le risorse create c’è il portale Amazônia, fonte di notizie, dibattiti, studi. Poi Radio Amazônia, la voce della foresta: 236 stazioni radio a onde corte collegano le comunità più remote. Di questa rete fanno parte anche progetti mirati a sviluppare l’economia e tutelare l’ambiente; per esempio, la certificazione Fsc (www.fsc.org/fsc) garantisce articoli realizzati con legno “corretto” dal lato ambientale, sociale ed economico. “Offriamo servizi di business alle piccole comunità che hanno prodotti sostenibili da commercializzare”, aggiunge Smeraldi, “e contiamo di organizzare presto una fiera internazionale”. È ora di cambiare, insomma. Altrimenti, ammonisce il World Resources Institute (www.wri.org), l’attuale trend condurrà alla sparizione del 40% delle foreste mondiali nei prossimi dieci o vent’anni; forse prima.

[paola segurini – d, la repubblica delle donne – 22 gennaio 2005]

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