Cinema, arriva "Fast Food Nation"

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È meglio riflettere prima di mangiare un hamburger, perché dietro a ciò che si mangia c’è tutto un sistema che si svela. Questo il messaggio che lancia Richard Linklater (già apprezzato per “School of Rock”) nel film “Fast Food Nation”, presentato al festival di Cannes e dal 20 luglio nelle sale distribuito da Dnc. L’idea del regista è stata fin dall’inizio quella di analizzare la vita, le persone, gli effetti, l’ambiente, perfino gli animali e tutto ciò che li riguarda, per capire fino a che punto un banalissimo hamburger sia in grado di colpire la salute l’aspetto e la sensibilità della gente. Emerge il vero volto dell’industria del fast food, con immagini spietate e realistiche che portano conseguenze sull’ambiente, sulla società, sull’economia e sulla cultura umana, tra multinazionali e sfruttamento della mano d’opera, macelli come catene di montaggio e deforestazione selvaggia. La pellicola è molto intensa e, con uno stile drammatico, centra il bersaglio, denunciando con ironia il sistema americano.

L’importanza del tema trattato è testimoniata dalla lunga serie di attori che hanno voluto schierarsi e apparire nel film: dal carismatico Bruce Willis che si presta per una sola scena, ma lascia un segno indelebile su tutto il film, a Patricia Arquette, passando per Avril Lavigne e finendo con Ethan Hawke. Il racconto mette alla berlina tutta la filiera che sta dietro le grandi catene di fast-food americani, produttrici di cibo di enorme consumo ma di scarsissima qualità.
Intrecciando tre storie che tra loro si toccano solo in maniera tangenziale, Linklater realizza l’ardua impresa di trarre un lungometraggio dall’omonimo romanzo-inchiesta di Eric Schlosser – coautore della sceneggiatura insieme al regista – trasformandolo in un’opera corale e sfaccettata, interessante anche se a volte appare non del tutto compiuta.

Il film inizia con i toni della commedia farsesca e segue le vicende di un bravissimo Greg Kinnear, mentre la linea narrativa di cui è protagonista la brava Catalina Sandino Moreno è di sicuro più drammatica. Decisamente più convincente nella sua paradossale vacuità è la presa di coscienza di un gruppo di adolescenti americani che decide di ribellarsi alla politica di queste multinazionali, arrivando ad ideare una serie di azioni di sabotaggio, che alla fine rivelano però solo tanta superficialità nel loro infantile impegno.

Richard Linklater lancia dei veri siluri contro il sistema usando precisi strali accusatori: «Prima regola del marketing, non uccidere il cliente» afferma con pragmatico cinismo don Henderson (Greg Kinnear) che nel film ha il ruolo di executive marketing. Questa affermazione potrebbe essere la chiave del film che, attraverso più storie intrecciate deplora il potere senza scrupoli delle compagnie Usa dei fast food. La storia prende il via quando don Henderson, il direttore marketing della Mickey’s Food Restaurants, abbandona i suoi comodi uffici e parte dalla California del Sud per capire come mai nella carne dei suoi amati hamburger, formato Big One, ci siano capitate delle sostanze tossiche: più esattamente delle feci. Scoprirà così, attraverso il suo lungo e terrificante viaggio nelle industrie-mattatoio, un’America sommersa dove tutto può davvero accadere.

Messicani clandestini utilizzati a ritmi infernali nei macelli che forniscono carne ai fast food e scoprirà anche che in quegli hamburger, da lui perfezionati perchè siano sempre più buoni sono davvero presenti delle feci. Si tratta “solo” un incidente di percorso abbastanza comune quando gli intestini degli animali non vengono liberati bene dalle loro carcasse. Ma Henderson scoprirà anche che, in questa America cinica e senza scrupoli, c’è chi teorizza lo sfruttamento dei messicani, ricordando che «guadagnano qui in un giorno quello che in Messico guadagnerebbero in un mese». Mentre dall’altra parte, quella ricca e comoda, sopravvive una gioventù americana velleitariamente rivoluzionaria. Sono ragazzi che continuano a sognare e credono che tutto si possa risolvere aprendo le porte alle mandrie dei mattatoi: ma, poi, temono che questo possa essere considerato un atto terroristico. Nel finale del film appaiono agghiaccianti le crude immagini dell’uccisione dei buoi nel mattatoio che, probabilmente, spingerebbero a scegliere l’alimentazione vegetariana persino i carnivori più convinti.

«L’idea era inizialmente quella di fare un documentario – ha detto il regista – ma poi ho preferito fare un film sui personaggi e la vita che sono intorno ai fast food. Io penso che questo film sia interessante dal punto di vista socio economico culturale anche antropologico: e poi l’imballaggio industriale e il lavoro che c’è intorno mi ha sempre affascinato. Così, ho voluto fare un film intorno a quel lavoro e a tutto ciò che c’è dietro. Il modo in cui scegli di mostrare la gente che lavora, che c’è dietro un pasto al fast food, ti porta a creare una definizione precisa di chi siano in realtà queste persone, persone che di solito nessuno vede e spero che la gente dopo averci fatto caso dica: “Ehi, questo proprio non lo sapevo!”.

[da Il Tempo del 5 luglio 2007]

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