I diritti dei vegetariani al ristorante: quale tutela?

Categoria : Società

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Spesso gli utenti vegetariani si trovano in difficoltà nel recarsi al ristorante o, comunque, nell’alimentarsi fuori di casa: le complicazioni sono anche maggiori per i vegani, sia per la scarsità di alternative che per la difficoltà di ottenere informazioni precise e corrette circa gli ingredienti adoperati nella preparazione dei cibi.Il rapporto giuridico tra cliente e ristoratore è una vera e propria compravendita, disciplinata ex art. 1470 c.c. come il “contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo”.
Come qualsiasi vendita, anche quella di generi alimentari comporta le garanzie di legge e l’art. 1490 c.c. prevede che: “Il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all’uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore”.

D’altronde, come si è già verificato in America, si potrebbe sostenere che la pietanza non vegetariana venduta per tale non è “inidonea” al consumo, come per esempio un prodotto scaduto, bensì semplicemente diversa da quanto concordato: per questo motivo trova applicazione l’art. 129 del D. Lgs. 206/05 (Codice del Consumo), a mente del quale: “Il venditore ha l’obbligo di consegnare al consumatore beni conformi al contratto di vendita. Si presume che i beni di consumo siano conformi al contratto se, ove pertinenti, coesistono le seguenti circostanze:

a) sono idonei all’uso al quale servono abitualmente beni dello stesso tipo;
b) sono conformi alla descrizione fatta dal venditore e possiedono le qualità del bene che il venditore ha presentato al consumatore come campione o modello;
c) presentano la qualità e le prestazioni abituali di un bene dello stesso tipo, che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, tenuto conto della natura del bene e, se del caso, delle dichiarazioni pubbliche sulle caratteristiche specifiche dei beni fatte al riguardo dal venditore, dal produttore o dal suo agente o rappresentante, in particolare nella pubblicità o sull’etichettatura;
d) sono altresì idonei all’uso particolare voluto dal consumatore e che sia stato da questi portato a conoscenza del venditore al momento della conclusione del contratto e che il venditore abbia accettato anche per fatti concludenti”.

Il presupposto dell’azione ai sensi del punto b) è che il venditore abbia prospettato qualità differenti da quelle realmente possedute dal prodotto: ciò sarebbe da escludere se, ad esempio, il cliente avesse acquistato sulla base di un proprio convincimento autonomo.
Ai sensi del punto d), anche in mancanza di una descrizione ingenerante erroneo affidamento, il consumatore può rivalersi nei confronti del venditore, laddove abbia dichiarato a quest’ultimo le proprie specifiche esigenze e questi, conoscendole, abbia stipulato il contratto anche per fatti concludenti, cioè – per esempio – somministrando il cibo presso il tavolo del ristorante.

L’art. 130 del D. Lgs. 206/05, che sancisce i diritti di garanzia del consumatore in caso di difformità del prodotto, prevede due rimedi alternativi: la riparazione/sostituzione, oppure la risoluzione del contratto, con conseguente rimborso del prezzo, a condizione che il primo rimedio non sia esperibile o che risulti eccessivamente oneroso.
All’atto pratico, dunque, tanto l’avventore del ristorante quanto l’acquirente di un alimento confezionato hanno il diritto di chiederne la sostituzione con altro conforme a quanto richiesto o promesso e, in caso ciò non sia possibile, ad esempio poiché tale alternativa non sussiste, ha il diritto a ricevere il rimborso del prezzo.

D’altronde, essendo in presenza di un rapporto contrattuale, l’eventuale inadempimento o inesatto adempimento del venditore determina il diritto dell’acquirente al risarcimento del danno patito ai sensi dell’art. 1218 c.c.: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui imputabile”; i danni risarcibili sono sia quelli patrimoniali, che quelli extra patrimoniali.
Ai sensi degli artt. 1427 e 1428 c.c. il contratto è annullabile – tra l’altro – quando il consenso è stato dato per errore, ove l’errore sia essenziale e riconoscibile dall’altro contraente: l’azione di annullamento deve essere esercitata in giudizio, dove l’attore dovrà provare di aver prestato il proprio consenso sulla base delle false allegazioni del venditore e, quindi, erroneamente.

Al contrario, non presuppone l’esercizio di alcuna azione giudiziaria la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1453 c.c.: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno”, mentre il successivo art. 1455 precisa che: “Il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza”.
L’inadempimento del venditore che fornisca alimenti a base di carne nonostante l’accordo preveda cibi vegetali, è senz’altro essenziale, poiché è evidente che l’acquirente vegetariano non potrà consumare in alcun modo tali prodotti e, anzi, verosimilmente sarà perfino contrario al loro acquisto.

Accanto alla disciplina civilistica trova spazio anche quella penalistica e, infatti, l’art. 515 c.p. (frode nell’esercizio del commercio) sancisce che: “Chiunque, nell’esercizio di un’attività commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all’acquirente una cosa mobile per un’altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita, è punito, qualora il fatto non costituisca un più grave delitto, con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a euro 2.065”.
La giurisprudenza italiana in tema di frode al commercio è giunta a interpretazioni alquanto estensive, tanto da affermare che: “La detenzione di prodotti congelati nei frigoriferi di un esercizio commerciale e l’omessa indicazione nel menù di tale precondizione dell’alimento integra il delitto tentato di frode in commercio, atteso che la predisposizione di una lista delle vivande senza l’indicazione che alcuni ingredienti erano congelati o surgelati dimostra l’univocità e l’idoneità dell’azione posta in essere ai fini della configurabilità del reato in questione. Peraltro, essendo l’attività del detentore finalizzata all’offerta al pubblico, per realizzare il tentativo non occorre che si instauri un rapporto concreto con il cliente, perché, in tal caso, ricorrerebbe l’ipotesi del reato consumato” (Cass. pen. Sez. III, 02/03/2004, n. 14806).
Inoltre la Suprema Corte ha altresì ribadito che: “In tema di frode nell’esercizio del commercio, nella nozione di dichiarazione di cui all’art. 515 cod. pen. rientrano anche le indicazioni circa origine, provenienza, qualità o quantità della merce contenute nell’eventuale messaggio pubblicitario che abbia preceduto la materiale offerta in vendita della stessa, essendo tale pubblicità idonea a trarre in inganno l’acquirente che riceve l’’aliud pro alio’” (Cass. pen. Sez. III Sent., 22/05/2008, n. 27105).

Insomma, la frode commerciale sarà ravvisabile in ogni caso in cui il venditore abbia prospettato all’acquirente qualità che il prodotto non possiede ed è senz’altro ravvisabile tale ipotesi nella rassicurazione che un alimento non contenga carne, oppure che sia vegetariano o vegano, ove ciò non risulti vero.
E’ da sottolineare la distinzione, ribadita anche dalla giurisprudenza, fra reato tentato e reato consumato: il primo è configurabile attraverso la semplice offerta/pubblicità del venditore e non presuppone che sia avvenuto né l’acquisto né tantomeno il consumo del prodotto, di talchè prescinde dalla sussistenza di qualsiasi stipulazione e può essere contestato anche a fronte di una semplice pubblicità attestante false qualità.

Gli illeciti consistenti in rappresentazioni false e/o ingannevoli dei prodotti venduti – giova rammentarlo – prescindono dalla sussistenza di alcun rapporto contrattuale, distinguendosi dalla disciplina civilistica della compravendita: tali condotte, in quanto astrattamente idonee a trarre in inganno e danneggiare il pubblico, sono comunque sanzionate anche nel caso in cui non si siano verificate le potenziali conseguenze dannose.

Ma la promozione commerciale mendace non è sanzionata soltanto penalmente, bensì anche attraverso norme amministrative e civili: il D. Lgs. 145/07 e il D. Lgs. 146/07 disciplinano rispettivamente la pubblicità ingannevole e le pratiche commerciali sleali attraverso una tutela di tipo amministrativo.

L’art. 2 b) del D. Lgs. 145/07, recante “Attuazione della direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica le direttive 84/450/CEE, 97/7/CE, 98/27/CE, 2002/65/CE, e il Regolamento (CE) n. 2006/2004”, definisce: “Pubblicità ingannevole: qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione è idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente”.

L’art. 3 determina che per stabilire se la pubblicità sia da considerare ingannevole occorre fare riferimento:
“a) alle caratteristiche dei beni o dei servizi, quali la loro disponibilità, la natura, l’esecuzione, la composizione, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale, o i risultati che si possono ottenere con il loro uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove o controlli effettuati sui beni o sui servizi;
b) al prezzo o al modo in cui questo è calcolato ed alle condizioni alle quali i beni o i servizi sono forniti;
c) alla categoria, alle qualifiche e ai diritti dell’operatore pubblicitario, quali l’identità, il patrimonio, le capacità, i diritti di proprietà intellettuale e industriale, ogni altro diritto su beni immateriali relativi all’impresa ed i premi o riconoscimenti”.

Si deve dunque concludere che l’ingannevolezza di una pubblicità può discendere da numerosi profili, ciascuno dei quali dovrà essere valutato singolarmente e qualora anche soltanto uno dei parametri presi in considerazione risulti non congruo si dovrà ritenere verificata la fattispecie vietata.
In particolare al punto c) emerge la rilevanza anche di circostanze non strettamente connesse con il bene in sé, ma che attengono ad elementi differenti, quali le privative, le qualità dell’operatore, etc.
Il D. Lgs. 145/07 è uno strumento di tutela azionabile dai professionisti, nei confronti dei propri concorrenti che pongono in essere pratiche commerciali scorrette ai sensi di quanto sopra, mentre è sempre il D. Lgs. 206/05 che disciplina la tutela a favore del consumatore nei confronti degli operatori professionali.

L’art. 1 del D. Lgs. 146/07, recante “Attuazione della direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica le direttive 84/450/CEE, 97/7/CE, 98/27/CE, 2002/65/CE, e il Regolamento (CE) n. 2006/2004″, che ha modificato l’art. 18 del D. Lgs. 206/05, definisce: “Falsare in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori”: l’impiego di una pratica commerciale idonea ad alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole, inducendolo pertanto ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”

La condotta riprovata può manifestarsi sia attraverso azioni che mediante omissioni (artt. 21-22 Codice del Consumo); sono, per esempio, azioni ingannevoli ravvisabili nei casi di un prodotto rappresentato come vegetariano senza esserlo, in quanto idonee a configurare “una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero”, avendo falsamente rappresentato “le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, gli accessori, l’assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto”

Si verifica la differente fattispecie dell’omissione ingannevole allorchè il commerciante “omette informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale e induce o è idonea ad indurre in tal modo il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”, ovvero ancora allorchè questi “occulta o presenta in modo oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo le informazioni rilevanti”.

Il discrimine fra lecito e illecito è rappresentato dunque dalla contemporanea sussistenza di una condotta fra quelle codificate e del requisito di idoneità ad indurre il consumatore in errore o, perlomeno, a stipulare un contratto che altrimenti non avrebbe stipulato: tale fattispecie è senz’altro ravvisabile nel caso del consumatore vegetariano, cui (i) il venditore abbia prospettato l’assenza di prodotti animali negli alimenti e (ii) sulla base di tale informazione il consumatore si sia determinato ad un acquisto che, invece, non avrebbe effettuato conoscendo le reali caratteristiche del prodotto.
Pertanto ai rimedi civilistici in ordine alla cessazione degli effetti del contratto e degli eventuali risarcimenti e a quelli penali consistenti nell’irrogazione di sanzioni a carico dei commercianti scorretti, le norme da ultimo esaminate attribuiscono a consumatori e professionisti anche una tutela amministrativa, cui si può ricorrere mediante l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM).

Il Garante, su segnalazione della parte interessata, avvia un’istruttoria per accertare la fondatezza delle rivendicazioni e, qualora ritenga ravvisabili gli estremi delle violazioni, può provvedere inibendo la diffusione dei messaggi promozionali illeciti, nonché irrogando sanzioni pecuniarie da un minimo di € 5.000 ad un massimo di € 500.000.
Resta da domandarsi quale rapporto sia ravvisabile tra le diverse forme di tutela (civile, penale e amministrativa) e, cioè, se sia necessario sceglierne una in base alla quale agire, oppure se ciascuna azione possa coesistere con le altre: a tal proposito è opportuno precisare che ciascuna azione trae fondamento da una norma specifica e distinta dalle altre, di talchè ciascuno dei titoli dedotti sarà differente in ogni procedimento.

Nulla vieta al consumatore vegetariano di esercitare il recesso (o la risoluzione) contrattuale e, in pari tempo, adire le autorità penali e amministrative per le eventuali violazioni ravvisate nella condotta del commerciante; la giurisprudenza ha infatti sancito che: “Il reato di frode nell’esercizio del commercio può concorrere con gli illeciti amministrativi di cui alla normativa in materia di pubblicità ingannevole di cui al D. Lgs. n. 206 del 2005 (che ha sostituito il previgente D. Lgs. n. 74 del 1992) atteso che quest’ultima opera su un piano e risponde ad una “ratio” diversi rispetto a quelli della fattispecie penale, sia per il più ampio campo di applicazione sia perché l’intervento sanzionatorio è previsto indipendentemente dal verificarsi della materiale consegna dell'”aliud pro alio”, necessaria per la sussistenza del reato” (Cass. pen. Sez. III Sent., 22/05/2008, n. 27105).

[avv. Carlo Prisco – carloprisco@carloprisco.it – 13 giugno 2012]

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